Kameha Grand, 100% Svizzera
26 novembre 2015
16 giugno 2016
Dalla rivoluzione suprematista sino a quella parametrica, passando per il Decostruttivismo, l’architettura di Zaha Hadid ha davvero cambiato la nostra nozione di spazio e la sua percezione geometrica. Il termine “archistar” sembra calzarle come un abito su misura: nessuno più di lei ha saputo mantenere una coerenza di segno e pensiero che l’ha collocata nell’empireo dei grandi architetti della storia contemporanea, come riconosciuto dall’assegnazione del prestigioso Pritzker Price. Uno dei suoi capolavori è il museo MAXXI di Roma, vincitore nel 2010 del premio Stirling. Abbiamo incontrato Margherita Guccione, Direttore del MAXXI Architettura, che ha avuto l’onore di vivere insieme alla grande Zaha la straordinaria avventura della costruzione dell’edificio.
“I primi disegni del MAXXI – racconta il Direttore – sono stati dei meravigliosi disegni astratti fatti a mano, dipinti che raccontavano di una personalissima ricerca partita dalla rilettura del Suprematismo di Malevich. Da qui si è sviluppata un’idea di spazio che lavora fuori dalle geometrie euclidee definendo un’architettura fluida, sfuggente, dinamica, frutto della visione di un genio, una persona con una velocità mentale diversa”. E infatti il MAXXI è stato progettato prima di entrare nella fase parametrica, quella del disegno digitale che ha generato l’Aquatic Center di Londra o il museo di Baku. A Roma è ben presente il debito che Hadid ha avuto con la sua prima formazione di matematica. “Sin dall’inizio nei nostri incontri – prosegue Guccione – è emersa chiara la necessità di progettare non un edificio ma l’occupazione di uno spazio. Il suo passato matematico la faceva parlare di flussi, di campi nei quali far scorrere l’energia dell’azione. Diceva infatti che “gli edifici sono il movimento congelato dei visitatori che li animeranno”. E aveva ben chiaro che l’architettura deve restituire lo spazio pubblico alla città. Di certo non essere una scultura estetizzante, come alcuni hanno erroneamente interpretato”. Basti notare che la curva che il museo disegna è complementare all’ansa del Tevere e dialoga strettamente con la vita del quartiere.
Che lezione ci lascia? “Sicuramente quella della determinazione che significa integrità e coerenza anche a costo di rompere rapporti e bloccare progetti. Ma, come diceva lei: “Senza la capacità di affrontare l’ignoto non può esserci progresso”.
Dalla rivoluzione suprematista sino a quella parametrica, passando per il Decostruttivismo, l’architettura di Zaha Hadid ha davvero cambiato la nostra nozione di spazio e la sua percezione geometrica. Il termine “archistar” sembra calzarle come un abito su misura: nessuno più di lei ha saputo mantenere una coerenza di segno e pensiero che l’ha collocata nell’empireo dei grandi architetti della storia contemporanea, come riconosciuto dall’assegnazione del prestigioso Pritzker Price. Uno dei suoi capolavori è il museo MAXXI di Roma, vincitore nel 2010 del premio Stirling. Abbiamo incontrato Margherita Guccione, Direttore del MAXXI Architettura, che ha avuto l’onore di vivere insieme alla grande Zaha la straordinaria avventura della costruzione dell’edificio. “I primi disegni del MAXXI – racconta il Direttore – sono stati dei meravigliosi disegni astratti fatti a mano, dipinti che raccontavano di una personalissima ricerca partita dalla rilettura del Suprematismo di Malevich. Da qui si è sviluppata un’idea di spazio che lavora fuori dalle geometrie euclidee definendo un’architettura fluida, sfuggente, dinamica, frutto della visione di un genio, una persona con una velocità mentale diversa”. E infatti il MAXXI è stato progettato prima di entrare nella fase parametrica, quella del disegno digitale che ha generato l’Aquatic Center di Londra o il museo di Baku. A Roma è ben presente il debito che Hadid ha avuto con la sua prima formazione di matematica. “Sin dall’inizio nei nostri incontri – prosegue Guccione – è emersa chiara la necessità di progettare non un edificio ma l’occupazione di uno spazio. Il suo passato matematico la faceva parlare di flussi, di campi nei quali far scorrere l’energia dell’azione. Diceva infatti che “gli edifici sono il movimento congelato dei visitatori che li animeranno”. E aveva ben chiaro che l’architettura deve restituire lo spazio pubblico alla città. Di certo non essere una scultura estetizzante, come alcuni hanno erroneamente interpretato”. Basti notare che la curva che il museo disegna è complementare all’ansa del Tevere e dialoga strettamente con la vita del quartiere. Che lezione ci lascia? “Sicuramente quella della determinazione che significa integrità e coerenza anche a costo di rompere rapporti e bloccare progetti. Ma, come diceva lei: “Senza la capacità di affrontare l’ignoto non può esserci progresso”.
The Moodboarders è un occhio spalancato sul mondo del progetto in tutte le sue multiformi declinazioni, capace di cogliere, anche nel quotidiano, lo straordinario. È la misura della temperatura epocale. È l’antenna sensibile capace di captare le tendenze sul nascere, i talenti che sbocciano, le estetiche trascurate. Non saggi, ma appunti veloci per sintonizzarsi sul ritmo del nostro tempo. Abbiamo viaggiato un anno senza fermarci e perché di questo viaggio non si smarrisca il ricordo abbiamo deciso di editare una versione cartacea. Abbiamo eliminato l’episodico, l’effimero e il fugace, cercando di mantenere la varietà degli argomenti e il loro fluido susseguirsi, di preservare la sorpresa delle scoperte, degli eventi colti nel loro manifestarsi, delle creazioni appena germogliate.